Gleba - Assaggi - Prestatrice d'opera

 

Il magazzino della “Diamante srl”, importatore dalla Bulgaria d’integratori dietetici “100% qualcosa”, aveva visto sbiadire progressivamente il bianco originario delle pareti esterne e si mostrava ormai con un monotono grigio, ravvivato solo dalle lunghe tracce di umidità color muschio che arrivavano fino al suolo. All’interno di quello scatolone di cemento ricolmo di pacchi pronti per la spedizione in tutta Italia, isole comprese, si trovava l’angusto ufficio in cui tre operatrici di call center raccoglievano le ordinazioni degli acquirenti. I quali, affascinati dagli spot televisivi che assicuravano stupefacenti risultati, scientificamente dimostrati da non meglio precisati istituti di ricerca, si attaccavano al telefono alla ricerca dell’ennesima alchimia con cui provare a dare scacco alle ingiurie del tempo e agli eccessi del palato. Valeria era una delle tre donne che prestavano le loro voci agli imbonitori della società dell’adipe e ne facilitavano i fatturati a cinque zeri. Anche se a breve sarebbe stata costretta a cambiare lavoro.

Lei, infatti, non era una lavoratrice, ma una “prestatrice d’opera”, mentre la società che le pagava il salario era una “somministratrice di lavoro”. I posti dove lavorava, quindi, variavano di mese in mese, a seconda dei contratti che le venivano proposti. Questi, per giunta, non erano nemmeno a tempo determinato, per i quali era prevista, teoricamente, una futura conversione all’indeterminato. I suoi contratti erano del tutto precari e prevedevano semplicemente che lei riempisse buchi là dove serviva, per un limitato arco di tempo, senza la minima speranza di stabilizzazione. Un mese in un Centro Elaborazione Dati, un altro in un Centro di Assistenza Fiscale, un altro ancora in un call center. Come durante quel settembre già freddo, alla “Diamante srl”.