I Signori della Cenere - Assaggi - Violenza

 


Cap. 4, pp. 29-33

New York, 28 settembre 2006


Il problema di Wall Street, di giorno, sul lavoro, era che dopo un paio di strisce non riuscivi mai a sfogarti come si doveva. Se ti andava bene, ti scopavi una collega nei bagni. Magari con un po’ di violenza. O riuscivi a fregare qualche idiota di cliente. Magari uno che ti stava sul cazzo. Niente di più.

Nel Bronx, invece, di notte, il giovedì notte, era diverso. Tutta un’altra storia.


Lorenzo sentì la dentatura del portoricano rompersi sotto il peso delle sue nocche, ormai rosse del sangue dell’avversario.


Lontano dal suo ufficio vetrato al trentaduesimo piano del grattacielo dove aveva sede la banca. Lontano dal suo gigantesco appartamento di Manhattan. Lontano dai suoi abiti da migliaia di dollari al pezzo. Lontano da tutta quella ricchezza luminosa e ostentata.

Nel Bronx, di notte, il giovedì notte, Lorenzo teneva lontano tutto questo. E si sfogava.


Il portoricano tentò di sollevarsi e lui lo lasciò fare. Una volta che lo vide in piedi, dondolante sulle gambe, lo colpì di nuovo con ferocia, allo stomaco. Quello sputò sangue e tornò faccia a terra.


La calata settimanale nel Bronx era un rituale, atteso con ansia e accuratamente preparato. Come giornata aveva scelto il giovedì, quando il peso della settimana gli risultava ormai schiacciante, e sfogarsi diventava per lui un bisogno fisico impellente, tanto quanto sniffare, scopare o fregare un cliente.


Il portoricano era un duro. Si rialzò di nuovo e fissò Lorenzo dritto negli occhi, con odio. Aveva una certa stazza, per essere un portoricano. Ed era pazzo, come tutti i portoricani.


Ogni volta, il giovedì sera alle sei, appena prima di lasciare l’ufficio dopo la lunga giornata di contrattazioni, allineava quattro lunghe piste sulla sua scrivania. E poi tirava. Un pezzo intero. Un grammo che arrivava dritto dritto al cervello e cancellava la stanchezza in un lampo.

Come nuovo, scendeva giù in qualche locale di Wall Street a bere Bloody Mary e Manhattan Rum per un paio d’ore, fianco a fianco con altri pinguini in giacca e cravatta, sudati e fatti quanto lui, a sbraitare con loro, parlando di niente.


Il portoricano si fiondò su di lui sbuffando. Lorenzo ne incassò il robusto destro. Sentì in bocca il sapore del proprio sangue. Finalmente.


Anche il rientro nel suo appartamento di duecentoventi metri quadri al numero 15 di Central Park West era scandito. Il tempo di una doccia, per lavare via tutte le scorie di giornata, ed era già il momento del campanello. La cena. Nel vassoio argentato del Doge, il migliore chef italiano di tutta la Mela, fiammava la consueta tagliata di manzo. Proteine al sangue. Quello che gli serviva per affrontare al meglio la notte. Metteva i cento dollari nelle mani del fattorino, e poi la divorava.


Eccitato dal colpo andato a segno, il portoricano ci riprovò immediatamente. Questa volta Lorenzo non si lasciò sorprendere. Il destro dell’uomo vibrò nell’aria con un sibilo sordo, a vuoto.

- Adesso basta, Portorico. Hai rotto il cazzo. Dentro c’è la tua troia che mi aspetta. Facciamola finita.


Di nuovo il campanello, puntuale come un cucù svizzero: a cinque minuti esatti dall’ultimo boccone di tagliata e a due dall’ultimo abbondante tiro di neve, arrivava lei. La puttana d’alto bordo uscita dal catalogo delle meraviglie di Stephanie, la miglior maitresse di tutta la Mela. Questa volta l’aveva scelta mora, snella e con le tette grosse. Il nome non lo ricordava. Dopo il baciamano, le aveva tirato su la gonna e l’aveva scopata contro il muro, con foga. Era venuto subito. Poi l’aveva spogliata, portata a letto e scopata di nuovo.


Gli occhi del portoricano divamparono d’odio. Lentamente, l’uomo si chinò e infilò la mano dentro lo stivale da cowboy. Ne tirò fuori un coltello a serramanico.

- Eh, no, Portorico. Così non vale. Niente lame.

Per tutta risposta, il polso del portoricano produsse un movimento rapido, cui seguì un rumore secco. Il metallo tagliente brillò minaccioso nella densa penombra di quel vicolo.


Un assegno da mille dollari serviva a congedare sbrigativamente la puttana di Stephanie e a lasciare a Lorenzo la solitudine necessaria agli ultimi preparativi.

Un paio di anfibi, un jeans strappato, una maglietta e un giubbotto di pelle. Per una volta, giacca e cravatta restavano nell’armadio. Nel Bronx non servivano.

Il portoricano caricò con la furia di un bufalo. La lama gli sfiorò appena la coscia, il tanto necessario per chiazzare di rosso i suoi jeans. Lorenzo guardò la macchia di sangue allargarsi. E sorrise.

Dal suo appartamento erano diciannove fermate della metro. Quando riemergeva in superficie, il puzzo di piscio e di fogna delle strade del Bronx colpiva subito le sue narici, abituate agli odori “patinati” di Manhattan. Lorenzo respirava quel tanfo a pieni polmoni, e poi, così rigenerato, s’incamminava in direzione di un locale, uno qualsiasi. All’eccitata ricerca di rogne.


- Nemmeno con quello riesci a farmi male, Portorico. Sei proprio una merda buona a nulla. Come tutti i portoricani.

Il bufalo tornò alla carica. Lorenzo lo attese immobile fino all’ultimo secondo. Con un balzo felino, si tolse di mezzo proprio quando il portoricano fu certo di avergli già infilzato le budella. Sorpreso dall’improvviso vuoto apertosi davanti a sé, l’uomo perse l’equilibrio e rovinò in mezzo a un mucchio di bidoni lerci.


Individuato il locale, ci entrava e si guardava attorno, con occhi adrenalinici. Il posto non doveva essere affollato, ma nemmeno vuoto. E doveva esserci almeno una coppia, sola. Se così non era, usciva e cercava un altro buco. Altrimenti, ordinava un whisky e raggiungeva subito i cessi.

Lì, di fronte a uno specchio sporco, la quindicesima o la ventesima striscia di giornata attraversava nuovamente le sue narici infiammate. Dopo aver inspirato con forza, Lorenzo chiudeva gli occhi e assaporava la botta. Poi li spalancava di colpo e si guardava allo specchio per un lungo istante. Quella che ci vedeva dentro gli sembrava sempre la faccia di qualcun altro. Uno che gli faceva schifo.

A quel punto, distoglieva lo sguardo e a grandi falcate tornava al bancone, buttava giù il whisky, ne ordinava un altro, buttava giù anche quello e poi si voltava. Inquadrava la coppia e si metteva a fissare la donna. Non passava mai molto tempo prima che l’uomo reagisse.


Quattro passi e fu sul portoricano. Lo sorprese alle spalle, ancora bocconi, stordito per la caduta. L’anfibio destro di Lorenzo si abbatté sulla mano che stringeva il coltello. Poi il suo ginocchio sinistro affondò nella schiena dell’avversario, immobilizzandolo. Lo afferrò per i capelli, costringendolo a una torsione dolorosa e innaturale fino a che la coda dell’occhio del portoricano non incrociò lo sguardo ghignante di Lorenzo.

- Buenas noches, Portorico.


- Ehi, stronzo, cos’hai da guardare?

Questa volta era bastato meno di un minuto. Quel portoricano aveva il sangue bollente. Faceva al caso suo.

Lorenzo, come ogni volta, si era avvicinato piano, continuando a fissare l’uomo. Poi si era bloccato a un metro da lui.

- Guardo la tua donna. Mi sembra triste. Forse ha bisogno di qualcuno che la scopi per davvero.

Come ogni volta, il prescelto era scattato in piedi e aveva fatto per scagliarsi subito su di lui.

- Non qui, Portorico. Fuori è più indicato.


La mano sinistra di Lorenzo cominciò a sbattere sull’asfalto la testa del portoricano, con la forza di una muscolatura possente, allenata da ore e ore di palestra. La coca ancora in circolo gli permise di ripetere quel gesto decine di volte, meccanicamente, senza ridurne l’intensità. Fino a che il cranio dell’uomo si aprì e di lui non restò che un corpo privo di sensi, riverso dentro una pozza di sangue larga un metro.