Suonare solo per le piante

Racconto - Terza puntata

 
 
30 marzo

Oggi c’è stato un flashmob riservato ai musicisti, sempre per ringraziare medici e personale sanitario. A mezzogiorno era in programma un minuto di musica a finestre aperte. Siccome non faccio altro che suonare tutto il giorno, a mezzogiorno ho deciso di aprire le finestre e smettere. La campagna ha udito il suono del silenzio.

 

2 aprile

Il governo ha prorogato la durata della zona rossa per altre due settimane. Serrata generale di tutte le attività, tranne quelle essenziali.

Lisa è disperata, le scuole restano chiuse, dice che di questo passo si perderà l’anno scolastico. Continua a registrare le sue lezioni, ma ormai lo fa svogliatamente. I ragazzi, dice, hanno smesso di seguirle.

Sono saltate altre tre date del mio tour.

Per tutto il giorno ho suonato Brahms.

Lisa ha cucinato e lavorato nell’orto.

Stasera, a dispetto di tutto, abbiamo fatto l’amore.

 

6 aprile

Negli ultimi giorni sono scoppiati disordini in molte città. Il cibo inizia a scarseggiare, pare. I morti aumentano di mille al giorno.

Io e Lisa, questa casa, queste colline, sembriamo appartenere a un altro mondo. O forse è il mondo che non appartiene più a noi.

 

10 aprile

Oggi ho fatto spesa e per la prima volta ho avuto paura. Gli scaffali sono quasi vuoti. Due uomini si sono accapigliati per l’ultimo pacco di pasta. Ho comprato soprattutto cibo in scatola. Ho pagato e me ne sono andato, quasi scappando. A Lisa ho detto che i rifornimenti arriveranno domani. Ma non è vero.

 

11 aprile

Pare che i nostri genitori stiano bene, ma ci dicono che da loro, in città, la situazione è precipitata. Le autorità hanno sconsigliato di uscire di casa persino per fare spesa. Il cibo verrà consegnato a domicilio, razionato. Per strada girano i militari.

Mia madre ha pianto, mentre mi parlava al telefono. Poi ha voluto che le passassi Lisa, e ha pianto anche con lei. Anche Lisa ha pianto. Poi ha pianto anche con sua madre. Anche sua madre ha voluto parlare con me. Ma con me non ha pianto, e non ho pianto nemmeno io.

 

12 aprile

Mi ha chiamato il mio agente. Dice che la data di Berlino è ufficialmente saltata. Tossiva molto, al telefono, sembrava affannato. Gli ho chiesto se stava bene, mi ha detto di sì, ma non è stato convincente.

 

14 aprile

Sono stato di nuovo a fare spesa. C’era un po’ più roba dell’ultima volta. Ho preso tutto quanto fossi in grado di portare a casa. Adesso abbiamo scorte per almeno un mese. Ho comprato persino un paio di salami. Ho sempre odiato i salami.

 

19 aprile

La zona rossa è stata prorogata a tempo indeterminato. Pare si sia arrivati a milioni di contagiati, ormai, e a quasi tremila morti al giorno. I dati non sono più così precisi. C’è chi nel conteggio annovera anche chi muore a causa di altre malattie che non si riesce più a curare per via del sovraccarico ospedaliero. Qualcuno dice che si dovrebbero includere anche i morti nei disordini. Per radio, poco fa, ho sentito che ci sarebbero anche tanti suicidi. E qualche morto di fame, nelle città più grandi. Ma lo diceva un giornalista noto per il suo catastrofismo. Io non ci ho creduto, Lisa sì.

L’anno scolastico è stato definitivamente sospeso, come il mio tour.

Siamo stati tutta la sera abbracciati sul divano, in silenzio.

Lisa non piange nemmeno più.

 

23 aprile

Oggi è andata via l’elettricità. Erano le tre di pomeriggio. Non è ancora tornata.

Oggi doveva esserci il mio concerto a Berlino.

Berlino, adesso, mi sembra una parola vuota, senza senso. Un concetto astratto.

Come Grecia. Come Istanbul.

Come matrimonio.

 

24 aprile

L’elettricità è tornata per qualche ora, stamattina. Abbiamo immediatamente acceso radio e tv, ma non andava in onda alcun programma informativo. Il televideo non era più aggiornato da ieri. I siti web nemmeno. Poi l’elettricità è andata via di nuovo. Siamo ancora senza.

Abbiamo chiamato il numero verde dell’emergenza virus, ma non ha risposto nessuno. Non rispondevano a nessun altro numero di emergenza. Non rispondevano nemmeno al numero verde del fornitore di elettricità. Abbiamo provato a chiamare i nostri genitori e qualche amico, ma nemmeno loro hanno risposto. Alcuni telefoni suonavano a vuoto, altri erano spenti. Poi anche i nostri cellulari si sono scaricati. Non abbiamo telefono fisso. Siamo completamente isolati.

Per via del blackout, non si vedeva nulla, lì fuori, ieri sera. L’oscurità era assoluta. Come il silenzio. Doveva essere così, al tempo degli antichi cacciatori-raccoglitori. Solo che a loro, probabilmente, non faceva paura.

 

25 aprile

L’elettricità non è tornata.

Stiamo cercando di cucinare e mangiare la maggior quantità possibile di surgelati, prima che vadano a male. Non è facile. Né io né Lisa abbiamo fame. La preoccupazione ci ha chiuso lo stomaco.

Continuiamo a discutere sul da farsi. Io insisto per salire in macchina e andare giù in paese a vedere che situazione c’è. Lisa non vuole, dice che solo qui siamo al sicuro. Che abbiamo ancora cibo per almeno due settimane. Che l’elettricità tornerà. Parla a scatti, scossa dal pianto e dai singhiozzi. Passa molto tempo nell’orto. Dice che l’orto è importante, che è la cosa più importante.

Io non riesco a suonare da due giorni.

 

26 aprile

Ancora niente elettricità.

Lisa è terrorizzata.

Continuo a pensare all’ultimo messaggio di mio padre, arrivato tre sere fa.

“Temo stia per succedere qualcosa di terribile”.

Ma a Lisa non l’ho fatto leggere.

 

28 aprile

Quarto giorno senza elettricità.

Sembra incredibile, ma riusciamo a farne a meno senza troppi danni.

L’orto si può fare lo stesso. Gli ortaggi crescono.

Anche il piano posso suonarlo lo stesso. Oggi ho ripreso a farlo.

Poi l’occhio mi è caduto sulla copertina del mio nuovo album. Quel CD mi è sembrato di colpo un reperto indecifrabile, appartenente a un’altra epoca, se non a un altro pianeta.

 

30 aprile

Ormai siamo senza elettricità da una settimana.

Abbiamo finito tutti i prodotti freschi. Con gli altri, possiamo tirare avanti ancora per una decina di giorni, forse due settimane. E, cosa ancora più grave, stiamo finendo anche le candele.

Sono tornato a insistere con Lisa sulla necessità che io vada in paese, non solo per procurare del cibo, ma anche, soprattutto, per parlare con qualcuno, capire cosa sta succedendo. Mi ha detto di no, che non è ancora necessario, che non devo dimenticarmi che lì fuori gira un virus contagioso e letale. Ha pronunciato con enfasi la parola letale.

 

1 maggio

Oggi, tutt’a un tratto, ho pensato con orrore alla possibilità che in paese non si possa più fare benzina. Mi sono precipitato a controllarne il livello nel serbatoio dell’auto, l’unica auto che abbiamo. È in riserva. Ci saranno cinque litri. Un centinaio di chilometri. Non riuscirei ad arrivare nemmeno dai miei.

 

3 maggio

Stamattina siamo stati svegliati da un miagolio. Nell’orto c’era un gattino, arrivato da chissà dove e chissà perché (di gatti, qui attorno a casa nostra, non ne abbiamo mai visti), tutto nero, conciato male e soprattutto affamato. Lisa gli ha dato subito del tonno in scatola. Ne ha mangiato più di quanto ci concediamo solitamente noi in questi giorni di razionamento. Ho protestato, le ho detto che non possiamo mica metterci a dare da mangiare pure ai gatti randagi, adesso. Lisa non mi ha risposto.

Stasera non ha fatto altro che accarezzarlo e coccolarlo, sul divano. Io li guardavo di sbieco.

Lo ha chiamato Neo. Piccolo e nero come un neo, le ho domandato io (e fastidioso, ma questo non gliel’ho detto). No, mi ha risposto lei, neo dal greco neos, nuovo, come il mondo senza elettricità che ce lo ha portato.

 

5 maggio

Sta meglio, Lisa. Non so se è per l’arrivo di Neo, per le piantine dell’orto che crescono, o cos’altro. Adesso riesce a dormire qualche ora, la notte. E non piange più di tre o quattro volte al giorno, solo per pochi minuti.

Sembra assurdo, ma da quando la situazione si è stabilizzata in questa sorta di bolla, in quest’attesa di qualcosa che non arriva, stiamo meglio entrambi. Ci sforziamo di non pensare al destino ignoto dei nostri genitori, dei nostri amici, e continuiamo a vivere.

 

6 maggio

Coltivare la terra è un lavoro lungo e faticoso, ma gratificante. Ieri abbiamo dissodato anche un pezzo di prato, raddoppiando lo spazio disponibile per le sementi. Per fortuna, ne avevamo in casa molte, e di vario tipo. In questi ultimi giorni abbiamo seminato peperoni, melanzane, fagioli e fagiolini, altre carote e lattughe, irrigando il terreno abbondantemente.

L’acqua, almeno, non è un problema. Casa nostra non attinge all’acquedotto comunale, è collegata a una sorgente di montagna: l’acqua arriva per gravità e senza bisogno di potabilizzazione. Sgorga dai rubinetti abbondante e buona.

 

7 maggio

A dispetto del lavoro inconsueto cui le sottopongo, dei calli e dei graffi, le mie mani suonano il piano meglio di prima.

Suono soprattutto Sibelius, in questo periodo, a finestre aperte, perché Lisa è convinta che le piantine crescano di più se ascoltano la musica. Specialmente, dice lei, quella di Sibelius. Io non ci credo, ma darle corda è l’unico modo che ho per passare almeno qualche ora al piano anziché con la zappa e il rastrello in mano.

 

10 maggio

Ho dovuto aspettare due giorni per riuscire a sedermi qui, a scrivere di quello che è capitato. Fino a questo momento lo sgomento me lo aveva impedito.

Due giorni fa, munito di guanti e mascherina, sono salito in macchina e mi sono diretto in paese, perché ormai bisognava fare spesa. Lisa voleva venire con me. Le ho detto che era inutile rischiare entrambi. Alla fine si è convinta. Per fortuna. Non credo che il cuore le avrebbe retto di fronte allo spettacolo tremendo cui ho assistito.

Il primo cadavere l’ho visto dopo circa un chilometro, appena lasciata la sterrata che da casa nostra conduce alla provinciale. Era riverso a terra, sul ciglio della strada, in posizione scomposta. Il volto gonfio, tumefatto. Gli occhi sbarrati. Era un giovane che conoscevo di vista. Faceva il meccanico giù in città, se non ricordo male.

Poi, lungo la provinciale, dopo qualche centinaio di metri, ne ho visti altri, più lontani. Nei prati, nei campi. Mucchi di cadaveri.

Quando sono entrato in paese ne avevo già avvistati a centinaia, e non mi aspettavo che lì potesse essere ancora peggio. Ce n’erano ovunque, al parco, sui marciapiedi, in mezzo alla strada. Ho dovuto passare sopra a diversi di loro per arrivare al supermercato.

Quando ho aperto la portiera, sono stato aggredito da un puzzo nauseabondo. Ho vomitato con dolore. Poi ho recuperato il cric dal baule e mi sono avviato verso il supermercato, incerto sulle gambe, circospetto, sforzandomi di non guardare quei corpi gonfi, quei volti sconvolti, quegli occhi sbarrati. Sforzandomi di non attribuire loro i rispettivi nomi e cognomi.

La porta del supermercato era aperta. Sono entrato, ho chiamato. Non mi ha risposto nessuno. Non c’era anima viva, come in tutto il paese. Solo cadaveri, pure lì, tra le corsie. Sugli scaffali era rimasto ben poco, ma quel poco l’ho quasi interamente caricato in macchina. Nessun prodotto fresco era ancora commestibile, ovviamente. L’elettricità è andata via anche in paese, probabilmente è andata via ovunque. Ho fatto incetta di scatolame, vasetti, pasta, riso, olio, sale, legumi, farine, detersivi, fiammiferi, candele.

Sono andato anche in farmacia. La porta d’ingresso era spalancata, dentro c’erano due cadaveri e un odore di morte ancora più insopportabile. Ho vomitato di nuovo. E poi, più velocemente che potessi, mi sono rifornito di medicinali di ogni sorta.

Prima di andarmene, sono passato al distributore di benzina, per quanto già immaginassi che sarebbe stato inutile: niente elettricità, niente pompa funzionante, niente rifornimento.

A quel punto, sentendomi come l’unico sopravvissuto a una battaglia devastante e insensata, mi sono allontanato in fretta, allucinato e boccheggiante, col proposito di non tornare mai più.

 

13 maggio

Ci stiamo lentamente riprendendo dallo choc.

Lisa ha quasi smesso di piangere. Io di restarmene muto, attonito, a fissare il muro.

Oggi ne abbiamo parlato, finalmente. Abbiamo per la prima volta cercato di razionalizzare, di trovare una spiegazione a quello che è successo.

Probabilmente, poco prima che l’elettricità se ne andasse del tutto, ormai tre settimane fa, c’è stato un ulteriore, brusco cambiamento nella natura del virus. Dev’essere diventato, per qualche misteriosa ragione, infinitamente più contagioso, e più letale. Evidentemente chi diceva che stava mutando in peggio aveva ragione.

Ci siamo chiesti se davvero siamo i soli sopravvissuti, e perché proprio noi. Probabilmente è stato il nostro totale isolamento a salvarci. E probabilmente non siamo gli unici, probabilmente c’è qualcun altro, come noi, in giro per le campagne, in Italia, nel mondo. Vogliamo crederci, anche se non vogliamo scoprirlo, almeno per ora. Andare in giro può essere estremamente pericoloso. Se ci sono altri sopravvissuti, il virus potrebbe essere ancora in circolazione nei loro organismi. Resteremo qui, nella casa che finora ci ha protetti, in attesa dell’ignoto.

È quasi buio, lì fuori. Quel buio così assoluto cui ci stiamo lentamente abituando. Non è quello, ormai, a spaventarci. È la nostra debolezza. L’assoluta fragilità del nostro fisico e della nostra mente. Le uniche risorse che ci restano, le sole su cui possiamo contare per sopravvivere. Anche per gli antichi cacciatori-raccoglitori era così. Solo che nemmeno di questo, sono certo, loro avevano paura. Perché per loro era l’unica condizione possibile. Perché non vivevano, come noi, nel ricordo di un mondo fatto di supermercati, ospedali, aerei, macchine e tecnologie d’ogni sorta. Un mondo che, forse, è sparito. Sparito per sempre.